il rapporto con l’animale come condizione per la community  

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L’attenzione verso questo principio interpretativo manifesta la consapevolezza del carattere scoprente, aprente del pensiero. Lo stesso pensiero si pensa come libero di avvicinare il proprio oggetto in forza dei presupposti con cui questo si lascia “interrogare”. Ma al tempo stesso si sa ad esso vincolato, perché è il pensiero che risponde all’oggetto e non l’oggetto a doversi conformare al pensiero; l’oggetto, anzi, deve conservare la capacità di sorprendere quest’ultimo, sfuggire alle sue anticipazioni. Il presupposto metodologico dell’antropologa diventa allora un atteggiamento interpretativo il cui carattere etico si mostra nella necessità, cui si sente chiamato, di rendere conto riflessivamente a se stesso del modo in cui si vive e si pensa l’essere dell’altro. Questa responsabilità davanti all’oggetto si accompagna poi alla responsabilità verso se stessi, poiché dallo sguardo che rivolgiamo all’altro non rimaniamo indenni, come se esso potesse non appartenerci essenzialmente.

Praticare allora il rapporto con l’animale che ci è vicino concedendogli il beneficio del dubbio sulla tua intelligenza, o per esprimersi in modo meno irritante, trattandolo da vivente (o persona, come dice la Smuts riferendosi a «tutti gli animali, umani e non umani, capaci di partecipare a rapporti personali, l’uno con l’altro, con esseri umani, o entrambe le cose», p. 129), è un modo che non solo riserva «doni imprevedibili», perché lo scambio che libereremmo sarebbe di certo una piacevole sorpresa, ma che affina il nostro pensiero, e dunque noi stessi, viventi umani incarnati che percepiscono osservano ascoltano pensano domandano scrivono parlano toccano guardano.

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