Una breve riflessione sul corpo dell’animale, che si impone potentemente allo sguardo interrompendo il tempo ordinario, e insieme si presenta come l’oggetto più fragile.
Per riuscire a guardare l’altro solo come corpo, dobbiamo correggere lo sguardo naturale, astrarre da una massa compatta di elementi, impercettibili perché indistinguibili; la fatica più grande è quella di astrarre dall’essere, l’altro, umano come noi. Con l’animale è diverso: perché non è uomo, ci può apparire come corpo, nel profilo della forma, nel volume, nei colori: corpo nella sua apparizione. Quando mai noi siamo solo corpo ad altri, se non per un respiro paralizzato di tempo? Forse scorgendo una figura indistinta che si avvicina, da lontano, e che solo mi pare di sembianza umana: ma la si può dire corpo? O nella perversione più buia, ma lì non c’è più corpo, c’è oggetto. Guardo l’animale con quel piacere-invidia che si prova per il narcisista perfetto, colui che si soddisfa senza bisogno di altri, come dice Freud? Non credo. A smentirlo ci sarebbe già solo il fatto che anche l’animale vive in relazione con altri, e soffre di solitudine. Si potrebbe dirlo al limite di un gatto. E’ vero che davanti a me l’animale non è più chi è per il suo simile, per il quale quel colore o quel volume è ragione d’attrazione, ma è ancora più vero che il visibile è fatto per occhi che lo vedano.
Dove è allora la radice del piacere con cui guardo e osservo? C’è una definitezza di contorni, una pulizia di forma, un equilibrio perfetto che potrebbe valere come segno di un bisogno psicologico che lì si appaga, ma mi pare che la radice sia altrove: quel corpo che appare sembra sottratto al tempo del mondo, come emergesse da fondali dove neppure la memoria è mai giunta, si facesse distinto e nella sua compiutezza rallentasse le vibrazioni della materia tutt’intorno, la portasse a quiete fino al punto ultimo oltre cui frana la morte. Non emersione dallo schiumare del mare, dove nascono gli dèi, ma infrazione del tempo, cavallo di troia introdotto a tradimento (timeo corpora et dona ferentes).
Se il corpo sembra venire da altrove, non deve stupire se esso si presenta a noi come la cosa più fragile. La sua fragilità ci lascia un fremito lieve, come un alito di vento se le foglie potessero tenerne memoria. Il fremito è lieve ma non segno di poco dolore, come quando a una funesta notizia l’angolo della bocca si muove appena, e a noi sembra già il culmine dell’espressione. E’ così quando non c’è parola che possa rispondere, e resta solo la debole traccia di un volere che si spenge. Quel corpo che sembrava minare il tempo dall’interno emergendo a uno sguardo che in questo modo salvava, è ancora nel tempo del mondo, che lo minaccia, lo fa fragile. A noi che guardiamo quel corpo, più di ogni altra cosa, e più di ogni altro uomo, ricorda quanto istantanea è la freccia della gioia, e quanta la buona sorte! per arrivare a noi così diritta. Umile parto che si lascia dietro lo strazio e si consegna così, nudo e perfetto, a noi che quello strazio l’abbiamo sempre davanti.
Barbara Bordato