Susina ha presentato al Webbit di Padova (mostra convegno annuale dedicata all’Information & Communication Technology) la filosofia del sito di Protty, e dicendo del senso di una community incentrata sul coniglio ha accennato anche all’universalità del Web.
Se la blogosfera è una rete di cunicoli, il dialogo tra il mondo superficiale e l’oscurità del cunicolo (guardacaso l’esperienza del coniglio), che ruolo ha la tecnologia nel veicolare le ragioni di noi animaletti pelosi, stretti d’assedio fra l’amore e le nevrosi degli umani?
Possono i conigli liberare l’uomo dal soggettivismo assoluto e onnipotente, afasico e incapace di comunicare passioni?
[le slides del Workshop tenuto da Protty e Susina al Webbit 2003 sono disponibili online]
La presentazione di un sito come protty.it può di fatto scaturire dalla curiosità che chiede: com’è possibile che un sito cosiddetto di nicchia sul coniglio come animale d’affezione, che è identificato nell’immaginario e nella pratica per lo più come animale da carne, passi in un anno dalle 20 visite al giorno alle 100, con picchi, in concomitanza con particolari occasioni, di 120-130? In altri termini: come si passa da un sito che nasce all’inizio come sito personale ad un sito che diventa un sito community? O ancora, come si passa da un particolare chiuso nella propria particolarità ad un particolare che invece, ponendosi in dialogo con altri, valica questa chiusura?
Questione di “saperci fare”? Di strategia, di assiduità maniacale, di indefessa dedizione e poi ovviamente di ambizione, per fare sempre meglio e tenere alto l’interesse? Sì, certo, è questione di antenne spiegate a captare quanto possa risultare utile, è questione di farsi venire delle buone idee, trovare corrispondentemente i modi per realizzarle, per esempio un buon blog collettivo; trovare insomma sistemi per aggregare la community, (concretamente dei luoghi di scambio, interazione), ma anche per rafforzarne il senso, la consapevolezza.
E’ dalla consapevolezza maturata in un lungo periodo di tempo che nasce l’Associazione del Coniglio Solidale, che ha preso l’avvio ufficiale nel gennaio di quest’anno, e che si occupa di sistemare su tutto il territorio italiano conigli che sono per varie ragioni in cerca di casa, organizzandosi in vere e proprie staffette.
Il successo di protty.it è dunque indubbiamente l’esito di una grande attenzione e di grandi sforzi in quell’aspetto che si potrebbe chiamare di strategia, – anche se poco o niente è stato deciso a tavolino, e l’occasione di presentarci qui oggi è stata per noi l’occasione di riflettere esplicitamente su questo work in progress che è protty.it, e di rintracciare con sorpresa quella coerenza, trama di sfondo, quello stile che ci rende riconoscibili.
Ma il successo di un sito in generale non è solo una questione di strategia, di approntamento cosciente di mezzi per realizzare un fine. In particolare il consenso che è cresciuto in modo entusiastico intorno a protty.it si deve anzitutto ad un interesse concretissimo, sempre più intenso e in espansione per il coniglio come animale da compagnia o d’affezione, come si usa dire. Questo in linea con la tendenza, riscontrata nell’ultimo decennio, di un apprezzamento crescente per l’animale, da una parte come l’onda lunga dei movimenti ecologisti, in generale della riscoperta del “naturale”, che è andata di pari passo anche con un bisogno sempre più avvertito, per ragioni che possono essere le più diverse, del non-umano (per reazione – per non farla tanto lunga – anche ad una certa pervasiva e ossessiva presenza dell’umano quale ci viene assicurata per esempio dalle tecnologie della comunicazione), dall’altra come frutto quasi spontaneo di certe condizioni che si sono liberate, condizioni economiche ma soprattutto culturali, che ci permettono di recuperare un rapporto con l’animale questa volta non più strettamente utilitaristico (com’era stato nel passato più recente), ma neanche solo affettivo, come accade nella pet therapy, bensì in senso forte esistenziale, che investe immaginazione, pensiero, forma di vita, insomma il nostro sguardo sul mondo.
Se darò poi la parola a Roberto che vi mostrerà in concreto la strutturazione del sito, con particolare attenzione ai servizi interattivi, e dunque ai mezzi in cui si raccoglie la community, in questa prima parte vorrei invece insistere sullo sfondo che sta dietro questo sito perché è anche questo secondo noi che ha fatto sì che ci fosse una risposta così generosa da parte degli utenti. A monte degli interessi sanitari o etologici ci sta un rapporto con l’animale come capace di promuovere, scatenare, mettere in moto un’esperienza conoscitiva. Che qui l’animale sia il coniglio, questo dipende dal fatto che noi personalmente abbiamo scoperto – ed è stata davvero una scoperta – nel coniglio il “nostro” animale, tanto che si riscontra, ormai più senza grande stupore, come l’amare il coniglio sia diventata una sorta di garanzia a priori dell’affinità tra le persone.
Non è fuori luogo – per quanto forse poco praticato come concetto – dire che il rapporto con l’animale può offrire la possibilità di fare l’esperienza liberante dell’alterità, del completamente altro dall’uomo. E dico può, perché è ben noto che, come ogni cosa, anche il rapporto con l’animale può venire piegato in direzioni diverse, può diventare un fattore di compensazione, rispondere a bisogni che non vengono a coscienza ma trovano una soddisfazione sotterranea, spesso a detrimento del povero animale, che diventa la cosiddetta valvola di sfogo, senza poter mai emergere come animale ma sempre e solo come luogo proiettivo ad uso del proprietario.
Di contro a questo è allora bene tenere presente come l’animale possa anche concedere un’apertura dello sguardo, o un allentamento della presa dei parametri consueti. Ma facendo leva su cosa? Un prima risposta potrebbe essere: sul piacere immediato dell’empatia, dell’esser-altro da noi stessi, del farci coniglio, così come una sensibilità poetica può bramare di farsi albero, fiore o cosa inanimata. E’ questa una delle posizioni che si trovano rappresentate nel libro “La vita degli animali” di John Coetzee, che raccolgono le Tanner Lectures tenute dallo stesso Coetzee a Princeton nel 1997-98 e che l’autore aveva escogitato in forma letteraria, come conferenze tenute da Elizabeth Costello, scrittrice dedita alla causa animalista, in un College. La Costello commenta a un certo punto due poesie sul giaguaro di Ted Hughes [poeta inglese, marito di Sylvia Plath]:
“Hughes scrive contro Rilke [La pantera, in Nuove Poesie]. Usa lo stesso scenario dello zoo, ma una volta tanto è la folla a essere magnetizzata, e tra la folla l’uomo, il poeta, è in trance, inorridito e sopraffatto, mentre i suoi poteri di comprensione si spingono oltre il limite. La vista del giaguaro, a differenza di quello della pantera, non è sfocata. Al contrario i suoi occhi perforano le tenebre. La gabbia non è reale per il giaguaro, lui è altrove. […]
Hughes si avventura in un genere diverso di essere-nel-mondo, che non ci è del tutto estraneo, dal momento che l’esperienza di fronte alla gabbia sembra appartenere all’esperienza del sogno, un’esperienza conservata nell’inconscio collettivo. In queste poesie conosciamo il giaguaro non dal modo in cui ci appare ma dal modo in cui si muove. Il corpo è mentre il corpo si muove, o mentre le correnti vitali si muovono al suo interno. Le poesie ci invitano a immaginare noi stessi in quel modo di muoversi, ci invitano ad abitare quel corpo.
Con Hughes si tratta – lo ribadisco – non di abitare un’altra mente bensì di abitare un altro corpo. E’ questo il genere di poesia che propongo alla vostra attenzione oggi: una poesia che non cerca di trovare un’idea nell’animale, che non è sull’animale, bensì la testimonianza di un impegno con l’animale. […]
Mettendo in primo piano il giaguaro, Hughes ci mostra che anche noi possiamo incarnare gli animali, grazie a quel processo chiamato invenzione poetica che mescola senso e soffio vitale in un modo che finora nessuno ha saputo spiegare e mai riuscirà a spiegare. Ci mostra come far vivere dentro di noi il corpo vivente. Quando leggiamo la poesia sul giaguaro, e poi ci ripensiamo in tranquillità, per qualche istante noi siamo quel giaguaro. Si agita dentro di noi, si impadronisce del nostro corpo, è noi. […]” [pp. 63-66].
Significativo a mio avviso è che questo libro termini in un modo che si può leggere come la radicalizzazione di questa posizione dell’empatia con l’animale, quasi disgregandola ironicamente dall’interno: questo “sentire”, come quello della Costello nel finale, è di fatto assoluto, autarchico, così sciolto dal resto che la parola non riesce a traghettare all’altro le ragioni di questo sentire, e che dunque si può solo sentire a propria volta. E’ qualcosa che non corre sul filo del linguaggio ma su quello immediatamente corporeo, irrefrenabilmente affettivo, e finisce per scatenare la reazione che pare insieme naturalissima ma insieme scadente, che ha il figlio. Il libro si conclude infatti con il seguente dialogo tra la Costello e il figlio che la sta accompagnando all’aeroporto:
“”E’ stata una visita così breve – dice il figlio – che non ho avuto il tempo di capire come mai ti prendi tanto a cuore la questione animale”.
Lei guarda i tergicristalli muoversi avanti e indietro.
“In realtà – spiega – non te l’ho detto, come mai, oppure non oso dirtelo. […]”
“Non ti seguo. Cos’è che non puoi dire?”
“E’ che non so più dove sono. Mi sembra di essere perfettamente a mio agio tra la gente, di avere rapporti perfettamente a mio agio tra la gente, di avere rapporti perfettamente normali. E’ possibile, mi chiedo, che tutti quanti siano complici di un crimine di proporzioni stupefacenti? Sono tutte fantasie? Devo essere pazza. Eppure ogni giorno ne vedo le prove. Le stesse persone che sospetto le producono, me le mostrano, me le offrono. Cadaveri. Frammenti di cadaveri che hanno comprato in cambio di denaro.
E’ come se andassi a trovare degli amici, e dopo che ho fatto un’osservazione gentile sulla lampada che hanno in salotto, loro dicessero: – Sì, è bella, vero? E’ in pelle di ebrea polacca; secondo noi è la migliore, la pelle delle vergini polacche -. Poi vado in bagno e sull’involto di una saponetta c’è scritto: – Treblinka – 100% stearato umano -. Sto forse sognando?, mi chiedo. Che razza di casa è mai questa?
Eppure non sto sognando. Guardo nei tuoi occhi, in quelli di Norma, in quelli dei bambini, e vedo soltanto bontà, bontà umana. Calmati, mi dico, stai facendo d’una mosca un elefante. La vita è così. Tutti scendono a patti con la vita, perché tu non puoi? Perché tu non puoi?
Gira verso di lui un volto rigato di lacrime. Che cosa vuole, pensa lui. Vuole che risponda per lei alla sua domanda?
Non sono ancora sull’autostrada. Lui accosta, spegne il motore, prende sua madre tra le braccia. Inspira l’odore di crema idratante, di pelle vecchia. “Su, su” le sussurra in un orecchio. “Su, su. Tra poco passa”” [pp. 84-85].
Ho letto l’intervento dell’antropologa – che insieme a quelli di altri tre studiosi, raccolti in appendice, riflette su questo testo di Coetzee – come un contrappunto alla posizione che privilegia il sentire empatico o a quella del finale, vicina all’implosione, di Elizabeth Costello, stretta tra la necessità di non poter fare altrimenti e l’incapacità di tradurre all’esterno questa necessità, esposta dunque al rischio di una paranoia cosciente.
Barbara Smuts è un’antropologa dell’Università del Michigan, che ha studiato a lungo i babbuini, e studiati “dal vivo”, nel senso che ci ha vissuto insieme per mesi e in più sessioni. Devo dire che dei quattro interventi è quello più interessante; il filosofo dice poco, la critica letteraria ha affinato il suo brillantissimo ingegno sugli aspetti nascosti e impliciti del testo, la storica delle religioni si avventura in una comparazione sul ruolo sacrale degli animali. L’antropologa è l’unica che prende posizione rispetto a quanto emerge nel libro, che è anche una perorazione a favore dei diritti degli animali, una denuncia del carattere nazista dell’industria zootecnica, ma è prima di tutto – nel senso che è questa la radice di ogni posizione “ecoresponsabile”, come viene chiamata nel testo – un invito ad esperimentare un rapporto con il non umano. E questo invito, a sua volta, è possibile accoglierlo solo qualora si ammetta che l’altro vivente si rivela a noi in corrispondenza della libertà con cui gli concediamo di essere quello che è: vale a dire dei presupposti con cui noi ci avviciniamo a lui, dei concetti con cui noi lo anticipiamo, ovvero dell’orizzonte che noi apriamo per il darsi della relazione. Se è ingenuo pensare che si possa “interrogare” qualcosa senza pregiudizi, allora il discrimine sta nella qualità dei pregiudizi.
Così conclude l’antropologa:
“Credo fermamente – e la mia esperienza con altri animali conferma questa mia convinzione – che trattare i membri di altre specie come persone, come esseri con un potenziale molto superiore alle nostre normali aspettative, faccia venire in luce quanto c’è di meglio in loro; e che questo meglio contenga doni imprevedibili.
Cosa direbbe Elizabeth Costello di tutto questo? Suppongo che non si stupirebbe delle mie esperienze con i babbuini o del mio rapporto con Safi. Sembrano, infatti, in armonia, con la sua tesi che “non vi sono limiti alla nostra capacità di entrare col pensiero nell’essere di un altro. Ma io formulerei il suo discorso in termini leggermente diversi, legati meno all’immaginazione poetica e più all’incontro concreto con altri animali. La mia vita mi ha persuaso che le limitazioni presenti nei nostri rapporti con altri animali non dipendono dalle loro deficienze, come tanto spesso presumiamo, ma dalle nostre idee ristrette su ciò che essi sono e sul tipo di rapporto che possiamo avere con loro. E quindi concludo invitando chiunque abbia interesse per i diritti degli animali ad aprire il suo cuore agli animali che ha intorno, e a scoprire per conto suo cos’è l’amicizia con una persona non umana” [pp. 142-143].
Prim’ancora di discutere se l’animale possa o no soffrire, se avverta la morte imminente, se lo si possa dichiarare portatore di diritti, se sia in grado di “capire” e via dicendo, un tale principio interpretativo va alla radice e capovolge in modo copernicano il problema. Prima di interrogarci sull’oggetto, interroghiamo noi interroganti. Quali presupposti ci governano quando pensiamo agli animali, al rapporto uomo- animale, o pratichiamo il nostro concreto rapporto – se c’è – con l’animale? E’ possibile che trattando l’animale come – per esempio – un eterno bambino, questo dica qualcosa sulla nostra scarsa capacità di vivere la discreta varietà in cui può darsi una relazione?
E’ possibile pensare altrimenti? E quali guadagni ne otterremmo? Una simile decisione non ha ovviamente un asettico sapore teoreticistico ma può sorgere solo radicata in un modo concreto di praticare il rapporto con l’animale. A questo ci rende avvertiti Barbara Smuts. Gli animali ci sorprendono se noi ci disponiamo verso di loro alzando il livello consolidato delle aspettative. Ma il livello lo possiamo alzare solo se entriamo in rapporto con loro; solo nella pratica dello stare-con veniamo invitati a correggere i nostri presupposti e possiamo poi verificarne l’effetto. Allora pioveranno “doni imprevedibili”.
L’attenzione verso questo principio interpretativo manifesta la consapevolezza del carattere scoprente, aprente del pensiero. Lo stesso pensiero si pensa libero di avvicinare il proprio oggetto in forza dei presupposti con cui questo si lascia “interrogare”. Ma al tempo stesso si sa ad esso vincolato, perché è il pensiero che risponde all’oggetto e non l’oggetto a doversi conformare al pensiero; l’oggetto, anzi, deve conservare la capacità di sorprendere quest’ultimo, sfuggire alle sue anticipazioni. Il presupposto metodologico dell’antropologa diventa allora un atteggiamento interpretativo il cui carattere etico si mostra nella necessità, cui si sente chiamato, di rendere conto riflessivamente a se stesso del modo in cui vive e pensa l’essere dell’altro. Questa responsabilità davanti all’oggetto si accompagna alla responsabilità verso se stessi, poiché dallo sguardo che rivolgiamo all’altro non rimaniamo indenni, come se esso potesse non appartenerci essenzialmente.
Praticare allora il rapporto con l’animale che ci è vicino concedendogli il beneficio del dubbio sulla tua intelligenza, o per esprimersi in modo meno irritante, trattandolo da vivente (o persona, come dice la Smuts riferendosi a “tutti gli animali, umani e non umani, capaci di partecipare a rapporti personali, l’uno con l’altro, con esseri umani, o entrambe le cose”, p. 129), è un modo che non solo riserva “doni imprevedibili”, perché lo scambio che libereremmo sarebbe di certo una piacevole sorpresa, ma che affina il nostro pensiero, e dunque noi stessi, viventi umani incarnati che percepiscono osservano ascoltano pensano domandano scrivono parlano toccano guardano.
L’ho fatta forse un po’ lunga ma mi stava a cuore far capire cosa ci sta dietro un sito dedicato in modo così esclusivo ad un animale. E anche per osservare una volta di più come la comunicazione funziona davvero quando ha alle spalle un’intenzione comunicativa, e ancora, l’intenzione comunicativa non è qualcosa di volontaristico (si vuole per ambizione e si cercano i mezzi più adatti) ma è qualcosa che matura spontaneamente quando ci si mantenga aperti ad un’esperienza, – che può essere anche quella di un animale.
– J. M. COETZEE, La vita degli animali, Adelphi, Milano 2000.
– A. M. ORTESE, Corpo celeste, Adelphi, Milano 1997.
– R. MARCHESINI, La fabbrica delle chimere, Bollati Boringhieri, Torino 1997.
– ID., Il concetto di soglia. Una critica all’antropocentrismo, Theoria, Roma 1996.
Barbara Bordato – Webbit 2003